Il Teatro No

Il teatro classico giapponese, chiamato No, è una forma artistica molto complessa.

Si tratta di un teatro simbolico che dà primaria importanza al rituale e alla suggestione.
Le storie che racconta sono basate su tanti piccoli episodi e particolari che si fondono io un unico spettacolo utilizzando molte arti contemporaneamente: danza, musica, mimo.
Anche architettura e scultura intervengono e si mescolano in queste performance, dando vita a qualcosa di difficilmente comprensibile, soprattutto per uno spettatore occidentale.
Le maschere di legno che si usano, spesso antiche di centinaia di anni, hanno la proprietà di mutare espressione solo per mezzo del gioco di luci e ombre che l’attore crea muovendo la testa, mentre la scena, che originariamente si teneva all’aperto, è essa stessa un’opera d’arte.
Per la costruzione del palco principale si utilizza il legno di hinoki, il cipresso giapponese. Normalmente il palco misura sei metri per sei e viene interamente levigato e coperto da un tetto in shintoista.
Il teatro No è l’espressione della più raffinata estetica Zen, e ciò, talvolta, lo rende incomprensibile anche agli occhi di uno spettatore giapponese.
Nel suo senso più lato, comprende il teatro comico kyògen, ed ebbe il suo splendore nel XIV secolo. Fu in tale periodo che divenne un forma teatrale autonoma. Prima di allora, una delle rappresentazioni più in voga era il sarugaku, antico spettacolo di danze, mimi e giochi di equilibrismo.
Le varie compagnie teatrali si spostavano di paese in paese eseguendo i loro spettacoli, soprattutto nei templi in occasione di feste religiose.
Furono i drammaturghi e attori Kan’ami (1333-1384) e suo figlio Zeami (1363-1443), a trasformare il sarugaku nel no. Fu loro l’idea di introdurre gli elementi della musica e della danza, prendendoli dal teatro popolare, il ku- se-mai, e, così facendo, incontrarono il favore dello shogun dell’epoca, Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408).
Quest’ultimo decise di sostenerli dando loro l’opportunità di affinare ulteriormente quella tecnica teatrale.
Dalla metà del XX secolo il no ha incontrato non poche difficoltà, e ancora oggi sopravvive grazie a un ristretto, ma affezionato e fedele pubblico.
L’uso della maschera:
Lo shite recita in maschera il che ovviamente toglie ogni possibilità di esprimersi con la mimica facciale. Però la grande abilità degli attori produce quasi espressività della maschera anche grazie al fatto che quest’ultima è scolpita in modo tale che a secondo dell’orientamento e della diversa incidenza della luce si producano mutamenti espressivi. Poiché i buchi posti all’altezza degli occhi sono di ridottissime dimensioni, per aumentare ulteriormente l’espressività, gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Tutte le maschere del teatro nō (能面 nō-men o 面 omote) hanno un nome.

Di solito solo lo shite, l’attore principale, porta la maschera. Può comunque accadere, che in alcuni casi, anche gli tsure possano indossare una maschera, in particolare per i personaggi femminili. Le maschere Nō sono di solito ritratti di personaggi femminili o non umani (divinità, demoni o animali), ci sono comunque anche maschere rappresentanti ragazzi o vecchi. Gli attori senza maschera hanno sempre un ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant’anni. Anche il comprimario waki non indossa maschere.

Usata da un attore capace la maschera è in grado di mostrare differenti espressioni e sentimenti a seconda della posizione della testa dell’attore e dell’illuminazione. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste o una grande varietà di altre espressioni.
La maschera inoltre, ha una funzione mediatrice cioè può incarnare entità superiori e costituire quindi un punto di incontro tra il tempo mitico e il tempo storico. Essa ha anche la funzione di richiamare i morti sulla terra: indossando la maschera del defunto, l’attore ne incarna lo spirito. Ecco perché qualsiasi spettacolo è preceduto da una sorta di venerazione nei confronti della maschera: in questo modo l’attore pensa che potrà incarnare al meglio il personaggio. Nei drammi più antichi le maschere erano addirittura considerate delle divinità, ecco perché ogni spettacolo era preceduto da preghiere rivolte a tali divinità.

 

E con questo articolo chiudiamo un percorso rapido della storia del teatro, una storia legate all’uso della maschera, intesa non solo come strumento estetico, ma come un potente mezzo di comunicazione terreno e non solo.


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